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4.9.12

L’impatto degli allevamenti intensivi sull’ecosistema del pianeta Terra




Nella storia della nostra specie, c’è stato un periodo in cui abbiamo provato un “caldo e avvolgente senso di appartenenza che ha caratterizzato il rapporto dell’uomo col mondo per migliaia e migliaia di anni”[1]: animale tra gli animali, l’uomo si aggirava nell’ambiente naturale sentendosi parte di un ecosistema, spesso provando un atavico timore, mentre tracciava all’interno delle caverne graffiti raffiguranti augurali scene di caccia o feticci contro gli animali feroci. Paul Shepard, filoso ambientalista, ha ipotizzato che il momento di rottura si è avuto quando l’uomo, da cacciatore e raccoglitore nomade, è divenuto stanziale ed ha cominciato ad allevare gli animali: siamo così passati ad avere il controllo ed il dominio su altri esseri viventi[2]. Col progredire della nostra storia evolutiva, sia del corpo che della tecnologia, siamo arrivati a sentirci i padroni del mondo, perdendo la preziosa relazione alla pari in cambio di uno sterile distacco in cui il tentativo sempre più sfrenato di ottenere il massimo col minimo investimento sta portando ad aberrazioni che, anche solo nel secolo scorso, non ci saremmo mai potuti aspettare.
Il 70% delle terre agricole e un 1/3 delle terre emerse nel mondo è utilizzato per allevare animali e coltivare mangimi, contro solo l’ 8% destinato a coltivazioni ad uso umano[3]. Questo significa che utilizziamo la maggior parte del terreno per nutrire un animale che ci restituirà trasformato solo il 10% della quantità di cibo ingerito[4]. È come se, in un distributore automatico di snack, dovessimo prima inserire un sacco da 1kg di patate per avere un sacchetto da 10g di patatine fritte. Quante volte alla settimana, se non al mese, penseremmo mai di fare una cosa così illogica solo per avere un cibo trasformato, per quanto appetibile ai più?
Il seguente grafico ci illustra quanti kg di vegetali servono per far crescere un animale e per darci 1kg di carne che compriamo al supermercato (fonte):

Qualcuno potrebbe obiettare: ma la quantità di proteine di 1kg di carne non è equivalente a quella contenuta in 1kg di vegetali. Risponderemmo che, a parte l'adeguato apporto proteico di una dieta vegetariana (nel caso della soia, praticamente pari), l'efficacia di conversione di proteine vegetali in animali da parte del manzo, per esempio, è solo del 6%: ciò significa che deve mangiare ben 790kg di proteine vegetali per produrne solo 50kg. Un solo aggettivo: spreco.

Ma la coltivazione e gli allevamenti hanno bisogno di un ingrediente necessario e che scarseggia: l’acqua. Per produrre 1 hamburger di soya occorrono 160l di acqua. Per produrre la stessa quantità di carne di vitello di litri ne consumiamo 1000[5]. Il rapporto presentato quest'anno al Convegno mondiale sull'acqua dallo Stockholm International Water Institute, in collaborazione con l'istituto tedesco per la ricerca sull'impatto climatico (PIK) parla chiaro: non ci sarà abbastanza acqua disponibile per produrre cibo per la popolazione stimata nel 2050 se seguiamo le attuali abitudini alimentari occidentali, che includono 20% di calorie prodotte da proteine animali, una percentuale di gran lunga superiore alla quantità raccomandata di proteine. Tuttavia ci sarà abbastanza acqua se la proporzione di cibo animale è limitato al 5% delle calorie totali e con un commercio alimentare basato su un sistema ben organizzato ed affidabile, quale non abbiamo oggi[6]. Potremmo coltivare molti più vegetali che sfamerebbero molte più persone: infatti un terzo dei cereali coltivati nel mondo e il 90% della soia sono destinate oggi a mangime animale1. Così non assisteremmo più al paradosso per il quale una parte del mondo muore di fame e un’altra parte si ammala e muore perché mangia troppo e mangia male e per farlo toglie terreno e cibo agli altri. In questa illustrazione (fonte) si chiarisce con un'immagine quanta acqua viene utilizzata a seconda del cibo che viene prodotto:


Il problema, tuttavia, riguarda anche la qualità dell’ambiente che viene messa seriamente in pericolo dal pesante contributo in termini di inquinanti della produzione di carne negli allevamenti intensivi.
Infatti la FAO1 considera che le emissioni di CO2 (anidride carbonica) provenienti dalla produzione di carne siano pari al 18% di quelle globali: infatti, per produrre 1kg di manzo emettiamo la stessa quantità di CO2 di 75kg di broccoli! Il rapporto tra quanto un alimento è salutare e la sua impronta sull'ambiente è indirettamente proporzionale: quello che dovremmo mangiare di più ha un basso impatto ambientale, mentre quello che dovremmo evitare ha un'impronta inquinante notevole, come spiega lo schema della doppia piramide alimentare (fonte):
I livello di queste emissioni è dovuto al fatto che vi sono molti passaggi in più che nella produzione di vegetali per il consumo umano: occorre trasportare i mangimi, trasportare gli animali al macello, trasportare la carne nella distribuzione.
E, a proposito di trasporti, è utile questo specchietto che traduce l'impatto della nostra dieta in km fatti in automobile:

Le conseguenze in termini di cambiamento climatico sono ben documentate. Ulteriori dati non sono più confortanti: il settore dell’allevamento animale emette 37% del gas metano (corresponsabile dell’effetto serra), il 65% di ossido di azoto (specialmente dai rifiuti organici), 64% di emissioni di ammoniaca (responsabile di piogge acide e dell’acidificazione degli ecosistemi)[7].
Come detto, il 70% delle terre agricole e il 30% di tutte le terre emerse sia occupato per produzione di cibo destinato agli animali negli allevamenti o per gli allevamenti stessi. Questi numeri sono collegati anche alla deforestazione o mancata forestazione per il cambiamento di uso di suolo se in precedenza destinato ad altri usi. Infatti, l’agricoltura e la deforestazione insieme contribuiscono a 1/3 delle emissioni globali di CO2: in particolare la FAO calcola che le emissioni dovute alla deforestazione per far posto alle coltivazioni è responsabile di 2,4 miliardi di tonnellate di emissioni ogni anno[8]. Oltre alla produzione di anidride carbonica e corresponsabilità nell'aggravamento dell'effetto serra, la deforestazione produce anche desertificazione nei territori secchi, erosione, frane e smottamenti nei territori piovosi e collinari, inquinamento degli ecosistemi acquatici (a causa del dilavamento delle acque) e, in un'ottica di commercio fairtrade che, per fortuna, prende sempre più piede, sottrazione di risorse per le popolazioni indigene.
Questi sono solo alcuni esempi dell’impatto degli allevamenti intensivi sulla nostra grande casa. La ragione “psicologica” di un grande cambiamento di massa è lo stesso di chi non smette di fumare: anche se le conseguenze sono note a tutti, non sono immediate e dunque il pericolo non viene percepito adeguatamente. Ma, oltre a questo, si aggiunge una scarsa informazione sull’argomento. Divulgare è un impegno che i più sensibili di noi si sono già caricati volentieri sulle spalle, ottimisti sulle incredibili qualità dell’homo sapiens sapiens.








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[1] Danon, M. (2006). Ecopsicologia, Crescita personale e coscienza ambientale. Urra, Milano, p. XII.
[2] ibidem.
[3] Rapporto Lega Anti Vivisezione (2012). I costi reali del ciclo di produzione della carne (sito).
[4] Veronesi, U., Pappagallo, M., (2011). Verso la scelta vegetariana, il tumore si previene anche a tavola. Giunti, Firenze.
[5] Ercin, A.E., Aldaya, M.M., Hoekstra, A.Y. (2011). The water footprint of soy milk and soy burger and equivalent animal products. (UNESCO) www.waterfootprint.org
[6] Stockholm international Water Institute (2012). Feeding a thirsty world, Challenges and opportunities for a water and food secure future (sito).
[7] OECD, Environment Directorate, Joint Working Party of the Environment Policy Committee and the Committee for Agriculture, 14, June 2002. http://unfccc.int/kyoto_protocol/items/2830.php/
[8] LAV (2012). I costi reali del ciclo di produzione della carne.
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