Chi ha mai avuto a che fare con
un giardino sa che questo è un mondo in continuo divenire, un brulicare in
lento movimento che continua anche quando l’attenzione del giardiniere è
altrove, anche di notte mentre gli esseri umani riposano.
Marco Martella ha un’idea ben
precisa di giardino. Attraverso le parole di Jorn de Précy, figlio di un ricco
commerciante irlandese, Martella espone la sua idea basata su chiari fondamenti
filosofici ma anche pratici. Non si può negare la bellezza di un giardino
italiano, la sontuosità di uno francese, le soluzioni di uno all’inglese.
Eppure l’autore spiega che tutti questi modi di approcciare la natura sono il
risultato di un principio fondamentalmente sbagliato: imbrigliare la natura,
dominarla, costruire un giardino come si fa con la città, pieno di forme che
solamente ricordano l’originale aspetto naturale, ma che sono invece piene di
artificiosità come aiuole piene di fiori disposti per colore, file di siepi perfettamente
squadrate, riproduzioni (quando non scimmiottamento) di statue o tempietti come
negli antichi giardini classici. In questa antichità l’autore vede la via regia
che riproporrà in tutto il libro. La città, le macchine, un giardino
geometricamente progettato, risponde solo al criterio di funzionalità, che
tutto ha tranne la bellezza. Se giardini di altre epoche ancora sopravvivono, vengono
“restaurati” e viene loro data una parvenza di antico, diventano attrazioni
turistiche, giocattoli per così dire. Oppure oasi di tranquillità e verde in un
mondo dominato dal grigio e dal fumo, bolle di tranquillità per esseri umani
stressati. Ma questi non sono altro che surrogati dei giardini del nostro
passato, pallide e allo stesso tempo ridondanti imitazioni.
Ma la natura non è fatta di
materiali malleabili e facilmente addomesticabili con gli opportuni utensili.
La natura è fatta di materia viva, che si muove in un tempo completamente
diverso da quello pronunciatamente spinto in avanti delle nostre vite. Il
giardino ti pianta nel qui ed ora, in un “lento, dolce, eterno presente”. Non
c’è uno scopo, non ci sono obiettivi.
E così il giardiniere non è un
botanico. Può conoscere i meccanismi del mondo vegetale, le precise date di
semina e fioritura, la chimica del terreno adatto ad ospitare una pianta.
Tuttavia il giardiniere è più un custode meravigliato, immerso in uno scenario
in cui prendono vita dinamiche più grandi, più antiche di lui. Di conseguenza, non mira al comando, non ne è proprietario, e
d’altronde a cosa servirebbe: la natura gli sopravvivrà e troverà sempre il
modo di muoversi secondo i suoi voleri. Tenere in ordine un giardino è un
concetto che dovrebbe sparire dal manuale del giardiniere: egli dovrebbe essere
come un direttore d’orchestra che semplicemente aiuta il fluire armonioso della
musica: strappare le piante infestanti, segnare dei sentieri con la falce,
accostare piante ad altre seguendo la loro natura. E, a volte, facendo nulla. Perché
è la natura che dovrà fare il grosso del lavoro.
“Cosa accadrebbe se l’uomo
civilizzato rinunciasse a trattare la natura come un terreno di conquista e
iniziasse ad abitare la terra da giardiniere?”. Dovremmo perdere un privilegio
che ci siamo costruiti da soli e che ci fa dormire serenamente la notte:
l’antropocentrismo. Non c’è alcuna gerarchia, alcuna piramide che ci mette al
vertice. Siamo parte della natura come ogni altro essere vivente e non vivente.
Ma se abbiamo una qualità in più (oppure diversa, diciamo solo diversa) in
quanto esseri umani, questa è la capacità di riflessione, che ci solleva dagli
istinti e ci permettere di prendere decisioni più ampie della nostra piccola
vita. Abbiamo il privilegio di poter lasciare una traccia nel mondo grazie al
tempo che ci è stato concesso. Sta a noi decidere il tipo di segno che la
nostra vita lascerà.